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martedì 19 febbraio 2013

PERCHE’ ESITONO ANCORA I FAX, PASSAGGIO GENERAZIONALE E LEADERSHIP FEMMINILE

Buongiorno, mi rivolgo a tutte le donne romane – perché per lavoro sono a Roma – sia a quelle che lavorano e a quelle che il lavoro lo hanno perso. E più in generale a tutti su LinkedIn, ovvio anche agli uomini, che abbiano voglia di ragionare un momento con me. Ho bisogno di conoscere ogni vostro singolo punto di vista sul seguente argomento che mi sta a cuore. Vi ringrazio con anticipo della vostra attenzione ed eventuale risposta.
 
Per uno dei lavori che conduco e per quella che è la mia esperienza, sto notando sempre di più quanto noi donne stiamo vivendo un momento di grande confronto/scontro con la cosiddetta “vita quotidiana”. Si, perché noto che è presente uno scoraggiamento, avvilimento, perdita di fiducia nelle proprie potenzialità. Spesso facciamo fatica in primis a riconoscerci e poi, di conseguenza, a sentirci riconosciuto il nostro operato dalle nostre famiglie e dalla società… e non solo come lavoratrici. In parte il dato è riconducibile al fatto che viviamo dell’associazione del ruolo femminile solo come “materno”. Non voglio fare la sociologa né la psicologa, mi chiedo se forse è anche un pochino colpa nostra se gli uomini si sentono “superiori” alle donne, perché quando sono bambini li viziamo un poco troppo e a volte li educhiamo come fossero dei “principi”: siamo vittime dell’eredità-donnechiocce che ci si ritorce contro?
Inoltre oggi il passaggio generazionale coinvolge anche la presenza femminile.
Una ricerca della Bocconi ci dice che dal 1990 al 2000 hanno assunto la guida della PMI di stampo familiare il 40% degli uomini e l’80% delle donne. Sta accadendo in tutti i ruoli aziendali chiave: proprietà, consiglio di amministrazione, vertice aziendale.
Questo accade spesso là dove la trasmissione delle quote è una scelta obbligata. Così sembra che nelle aziende familiari noi donne abbiamo spazio, e questo è un vantaggio, ma “per forza”.
Poi però capita che siamo le prime a ritagliarsi dei ruoli circoscritti, delle aree di comfort dove non applichiamo in toto la nostra fetta di responsabilità. Così la peculiarità di questo passaggio generazionale al femminile non è privo di una percezione del fenomeno come "anomalo" evidenziando, come dicevo, certi imprinting psicologici atavici.
Tuttavia, alcune di noi donne hanno una determinazione, motivazione e consapevolezza di sé molto forte e non considerano l'assumersi questa responsabilità come contraddittoria alla propria natura o "sbagliata".
Non sarebbe utile sostenere valorizzare i talenti femminili ed aiutarli anche nell'integrazione con i talenti maschili a qualsiasi livello possibile?
Perché quelle che invece vanno oltre e vedono oltre, perché sentono nelle proprie personali capacità una risorsa da usare e mettere a disposizione di tutti al 100% se la devono vedere con il confronto della leadership maschile? In realtà, noi come donne possediamo determinazione, decisione, grinta, autorevolezza e propensione al lavoro duro anche se in maniera certamente diversa dagli uomini, o no? Viviamo in un mondo in cui gli uomini decidono spesso e volentieri le sorti di intere società, governi, paesi; uomini che "scrivono la storia". E come dico sempre accanto a questi personaggi ci sono donne altrettanto grandi e forti.
Il fatto è proprio questo: il lavoro e qualsiasi opportunità non ci verrà a citofonare a casa. Mantenersi attive, ricettive e pronte è basilare. Un principio che Gandhi diffondeva era: “Devi essere il cambiamento che desideri vedere”. Quando le persone vogliono una cosa e ci credono davvero, troveranno il modo di farla diventare realtà. Spesso tante persone non credono il loro stesse e non si riconoscono per prime il valore di ciò che stanno facendo.
Che ne pensate?
Francesca Ferola
PS: esistono ancora i fax anche perché ci sono delle colleghe Segretarie che fanno a pugni con la tecnologia.
Mi è stato riportato il seguente fatto realmente accaduto.
Una Segretaria di Dirigenza ha ricevuto un’email con allegato e ha seguito le “nuove” direttive sulla qualità:
1) ha stampato email e allegato;
2) li ha spediti via fax con risposta all’interessato;
3) poi ha scansionato il tutto;
4) ha chiamato un collega per allegare il tutto all’email che voleva spedire in risposta (di nuovo).
Bastava fare inoltro! Aggiorniamoci ragazze!


sabato 30 giugno 2012

Abusi: quanto sono frequenti nella nostra professione

Circa un mese fa ho lanciato una poll sul nostro gruppo di LinkedIn in cui chiedevo di rispondere a una semplice domanda:
Hai mai subito abusi durante la tua vita professionale?
Le categorie di abuso che ho individuato sono:
  • Abusi verbali, come urli, risposte maleducate, l’uso di appellatavi sgradevoli, le richieste rivolte come fossero ordini
  • Abusi psicologici, quando il capo in modo sistematico critica tutto quello che facciamo e come lo facciamo, scatenando quello che io chiamo il senso di inadeguatezza
  • Abusi fisici e qui non ho bisogno di spiegarli a nessuno
Il gruppo è costituito da 722 colleghe e queste sono le risposte ottenute:
  • Hai mai subito un abuso verbale, es urli
    10 (27%)
  • Psicologico, ti fanno sentire inadeguata
    18 (50%)
  • Uno fisico
    2 (5%)
  • Non ha mai subito nessun abuso
    6 (16%)
Significa che su 36 persone che hanno risposto l’82% ha subito abusi, il 16% non ha mai subito abusi di nessun genere e il 2% non si è espresso.
Significa che su 722 persone circa il 4% ha subito un qualsivoglia tipo di abuso dal proprio capo.

Sono cifre importanti, un vero e proprio campanello di allarme.
In realtà, come si può leggere dai commenti delle colleghe, che sono e restano riservati, gli abusi fisici sarebbero di più, ma si fa molta fatica ad ammettere di aver vissuto situazioni simili, perché per qualche strana ragione, la vittima si sente in colpa.
Anche per quanto riguarda il tema degli abusi psicologici e verbali, il senso di inadeguatezza, più che di colpa, gioca un ruolo importante.
Senza voler fare la psicologa, che non sono, mi sembra evidente che noi subiamo queste situazioni per svariati motivi personali, che possiamo ricondurre a tre macro categorie:
  1. non possiamo rischiare di perdere il lavoro ribellandoci
  2. non siamo psicologicamente forti per affrontare un contradditorio con il nostro capo
  3. accettiamo il maltrattamento perché in un certo senso lo riteniamo giusto, il capo è un uomo – nella maggior parte dei casi, un nostro superiore – in tutti i sensi, quindi ha ragione
Il primo punto lo si può risolvere solo nel momento in cui decidiamo di averne avuto abbastanza, troviamo il coraggio di guardarci intorno e cominciamo a cercare un nuovo lavoro.
Attualmente la situazione economica non gioca a nostro favore, ma nulla e nessuno ci vieta di provarci, non si sa mai che capiti una buona occasione.
Gli altri due punti sono un po’ più complessi perché riguardano il nostro modo di essere, l’educazione che abbiamo ricevuto fin da bambine, i forti condizionamenti culturali di una società che è centrata sul maschio e che vede la donna come un appendice, sicuramente necessaria, ma sempre un appendice.
Come possiamo trovare la soluzione? vi posso dire che c’è, non è impossibile arrivarci, ma di sicuro è un percorso lungo, faticoso e a volte anche doloroso.
Alcune di noi hanno già raggiunto alcuni traguardi, hanno almeno preso coscienza della situazione e capiscono che è sbagliata e vogliono cambiarla, ma spesso non sanno come fare.
Altre neanche hanno capito che sono trattate ingiustamente, perché è da sempre che la situazione va avanti in quel modo, sin da quando, bambine, venivano messe in secondo piano rispetto al fratello.
Purtroppo comincia tutto da lì, dalla famiglia, dalle nostre madri che ci hanno educato ad essere passive, umili, disponibili e disposte ad accettare tutto, il bene, ma anche il male e che non ci hanno detto che possiamo e dobbiamo decidere per noi stesse.

Così arriviamo nel modo del lavoro con questo bel bagaglio di consigli, che a me sembra più che altro un lavaggio del cervello, pronte a dire sempre si, a stringere i denti e a non protestare mai, incapaci di negoziare per noi stesse, incapaci di chiedere per noi stesse, incapaci di dire basta.
Chi ha dei figli si faccia una domanda: cosa sarei disposta a fare per il benessere dei miei figli? certe madri arrivano ad uccidere per l’incolumità dei propri figli.
Perché allora non riusciamo ad applicare, anche solo in minima parte, questa attitudine anche nei riguardi del nostro benessere?
Perché non chiediamo mai per noi?

lunedì 27 giugno 2011

The case of Executive Assistants by Melba Duncan (the full article)

Harvard Business Review
The Case for Executive Assistants, by Melba J. Duncan.
Among the most striking details of the corporate era depicted in the AMC series Mad Men, along with constant smoking and mid-day drinking, is the army of secretaries who populate Sterling Cooper, the 1960s ad agency featured in the show. The secretary of those days has gone the way of the carbon copy and been replaced by the executive assistant, now typically reserved for senior management. Technologies like e-mail, voice mail, mobile devices, and online calendars have allowed managers at all levels to operate with a greater degree of self-sufficiency. At the same time, companies have faced enormous pressure to cut costs, reduce head count, and flatten organizational structures. As a result, the numbers of assistants at lower corporate levels have dwindled in most corporations. That’s unfortunate, because effective assistants can make enormous contributions to productivity at all levels of the organization.
At very senior levels, the return on investment from a skilled assistant can be substantial. Consider a senior executive whose total compensation package is $1 million annually, who works with an assistant who earns $80,000. For the organization to break even, the assistant must make the executive 8% more productive than he or she would be working solo—for instance, the assistant needs to save the executive roughly five hours in a 60-hour workweek. In reality, good assistants save their bosses much more than that. They ensure that meetings begin on time with prep material delivered in advance. They optimize travel schedules and enable remote decision making, keeping projects on track. And they filter the distractions that can turn a manager into a reactive type who spends all day answering e-mail instead of a leader who proactively sets the organization’s agenda. As Robert Pozen writes in this issue: A top-notch assistant “is crucial to being productive.”
That’s true not only for top executives. In their zeal to cut administrative expenses, many companies have gone too far, leaving countless highly paid middle and upper managers to arrange their own travel, file expense reports, and schedule meetings. Some companies may be drawn to the notion of egalitarianism they believe this assistant-less structure represents—when workers see the boss loading paper into the copy machine, the theory goes, a “we’re all in this together” spirit is created. But as a management practice, the structure rarely makes economic sense. Generally speaking, work should be delegated to the lowest-cost employee who can do it well. Although companies have embraced this logic by outsourcing work to vendors or to operations abroad, back at headquarters they ignore it, forcing top talent to misuse their time. As a longtime recruiter for executive assistants, I’ve worked with many organizations suffering from the same problem: There’s too much administrative work and too few assistants to whom it can be assigned.
Granting middle managers access to an assistant—or shared resources—can give a quick boost to productivity even at lean, well-run companies. Firms should also think about the broader developmental benefits of providing assistants for up-and-coming managers. The real payoff may come when the manager arrives in a job a few levels up better prepared and habitually more productive. An experienced assistant can be particularly helpful if the manager is a new hire. The assistant becomes a crucial on-boarding resource, helping the manager read and understand the organizational culture, guiding him or her through its different (and difficult) personalities, and serving as a sounding board during the crucial acclimation. In this way, knowledgeable assistants are more than a productivity asset: They’re reverse mentors, using their experience to teach new executives how people are expected to behave at that level in the organization.
Getting the Most from Assistants
Two critical factors determine how well a manager utilizes an assistant. The first is the executive’s willingness to delegate pieces of his or her workload to the assistant. The second is the assistant’s willingness to stretch beyond his or her comfort zone to assume new responsibilities.
Delegating wisely.
The most effective executives think deeply about the pieces of their workload that can be taken on—or restructured to be partially taken on—by the assistant. Triaging and drafting replies to e-mails is a central task for virtually all assistants. Some executives have assistants listen in on phone calls in order to organize and follow up on action items. Today many assistants are taking on more-supervisory roles: They’re managing information flow, dealing with basic financial management, attending meetings, and doing more planning and organizing. Executives can help empower their assistants by making it clear to the organization that the assistant has real authority. The message the executive should convey is, “I trust this person to represent me and make decisions.”
Not every executive is well-suited for this type of delegating. Younger managers in particular have grown up with technology that encourages self-sufficiency. Some have become so accustomed to doing their own administrative tasks that they don’t communicate well with assistants. These managers should think of assistants as strategic assets and realize that part of their job is managing the relationship to get the highest possible return.

Stretching the limits.

Great assistants proactively look for ways to improve their skills. When I was the assistant to Pete Peterson, the former U.S. commerce secretary and head of Lehman Brothers, I took night classes in law, marketing, and presentations to burnish my skills. Today I see executive assistants learning new languages and technologies to improve their performance working for global corporations.
In my work, I frequently encounter world-class executive assistants. Loretta Sophocleous is the executive assistant to Roger Ferguson, the president and CEO of TIAA-CREF; her title is Director, Executive Office Operations. She manages teams. She leads meetings. Roger says that he runs many decisions past Loretta before he weighs in.
Another example is Noreen Denihan, whom I placed over 13 years ago as the executive assistant to Donald J. Gogel, the president and CEO of Clayton, Dubilier & Rice, LLC. According to Don, Noreen fills an informal leadership role, has an unparalleled ability to read complex settings, and can recognize and respond to challenging people and circumstances. “A spectacular executive assistant can defy the laws of the physical world,” Gogel says. “She [or he] can see around corners.”
Trudy Vitti is the executive assistant to Kevin Roberts, the CEO Worldwide of Saatchi & Saatchi. Often when you ask him a question, he’ll say, “Ask Trudy.” He travels for weeks at a time and says that he has utter confidence in Trudy to run the office in his absence.
Compared with managers in other countries, those in the United States do a better job of delegating important work to their assistants—and of treating them as a real part of the management team. Outside the United States, educational requirements for assistants are less intensive, salaries are lower, and the role is more typically described as personal assistant.
You can often tell a lot about an executive’s management style—and effectiveness—from the way he interacts with his assistant. Can the executive trust and delegate, or does he micromanage? Do assistants like working for her, or does she have a history of many assistants leaving quickly or being fired? Not every boss–assistant relationship is made in heaven, but an executive’s ability to manage conflicts with an assistant can be an important indicator of his overall ability to manage people.

Finding the Right Fit

Hiring the right assistant can be a challenge. In some ways, it’s trickier than filling traditional management positions, because personal chemistry and the one-on-one dynamic are so important—sometimes more so than skills or experience.
Expert assistants understand the unspoken needs and characteristics of the people with whom they work.
They have high levels of emotional intelligence:
They respond to subtle cues and react with situational appropriateness.
They pay close attention to shifts in an executive’s behavior and temperament and understand that timing and judgment are the foundation of a smooth working relationship.
A good assistant quickly learns what an executive needs, what his or her strengths and weaknesses are, what might trigger anger or stress, and how to best accommodate his or her personal style.
Good matches are hard to come by: That’s the reason so many good assistants follow an executive from job to job.
After many years of debriefing assistants who’ve been fired, I’ve identified several factors that make for bad relationships. The most common missteps an assistant makes are misreading the corporate culture, failing to build bridges with other assistants, failing to ask enough questions about tasks, agreeing to take on too much work, and speaking to external parties without authorization. Bosses usually contribute to these deteriorating relationships by not being open in their communications or not being clear about expectations.
There’s an assistant I placed recently who’s having trouble developing the right relationship with her boss. The executive called me and said, “Melba, I expected her to read through these memos and then get them out very quickly to my managers. But she left them on my desk, didn’t call me over the weekend, and didn’t send them out.” I asked the assistant about it, and she said, “He didn’t tell me it was important—I can’t read someone’s mind.” But in fact, in this job you’re supposed to be able to read minds—or, at the very least, you’re supposed to ask questions.

Simply put, the best executive assistants are indispensable. Microsoft will never develop software that can calm a hysterical sales manager, avert a crisis by redrafting a poorly worded e-mail, smooth a customer’s ruffled feathers, and solve a looming HR issue—all within a single hour, and all without interrupting the manager to whom such problems might otherwise have proven a distraction.
Executive assistants give companies and managers a human face.
They’re troubleshooters, translators, help desk attendants, diplomats, human databases, travel consultants, amateur psychologists, and ambassadors to the inside and outside world.
After years of cutting back, companies can boost productivity by arming more managers with this kind of help—and executives who are fortunate enough to have a skilled assistant can benefit by finding ways to delegate higher-level work to him or her.
Executive–assistant relationships are business partnerships: Strong ones are win-wins between smart people. In fact, they’re win-win-wins because ultimately the companies reap the benefits.

giovedì 26 maggio 2011

Autostima, ne siamo sufficientemente provviste?

Recentemente ho parlato con alcune colleghe a proposito di comuni esperienze lavorative e abbiamo scoperto di avere un vissuto molto simile.

Abbiamo avuto infatti dei capi estremamente esigenti.

In che modo queste esigenze, quando diventano eccessive, possono essere arginate?

Io credo che molto dipenda dal nostro livello di autostima.

Citando Wikipedia:

“L'autostima è il processo soggettivo e duraturo che porta il soggetto a valutare e apprezzare se stesso tramite l'autoapprovazione del proprio valore personale fondato su autopercezioni. La parola auto-stima deriva appunto dal termine "stima", ovvero la valutazione e l'apprezzamento di se stessi e degli altri.
Il nostro senso di autostima deriva da: elementi cognitivi ovvero il bagaglio di conoscenze di una persona, la conoscenza di sé e di situazioni che vengono vissute dal soggetto; elementi affettivi che vanno ad influenzare la nostra sensibilità nel provare e ricevere sentimenti, che possono essere stabili, chiari e liberanti; elementi sociali che condizionano l'appartenenza a qualche gruppo e la possibilità di avere un'influenza sul gruppo, di ricevere approvazione o meno dai componenti di quest'ultimo.
Nei vari anni in campo psicologico sono stati portati avanti numerosi studi sull'autostima, un esempio tra questi è la ricerca di William James (1890/1983) il quale definisce l'autostima come rapporto tra sé percepito e sé ideale; il primo è la considerazione che un individuo elabora su di sé in base alle caratteristiche che dal suo punto di vista sono presenti o assenti all'interno della sua vita, il sé ideale è invece l'idea di come vorrebbe essere e del modello di vita che sta prendendo in considerazione.
Secondo lo studioso la persona percepisce bassa autostima nel momento in cui il suo sé percepito non riesce a raggiungere il livello del suo sé ideale e quanto più grande è la discrepanza tra i due, tanto più nasce in un soggetto insoddisfazione (nel caso in cui il sé percepito sia di gran lunga minore) e alto senso di potere e successo (quando il sé percepito supera di molto il sé ideale).
Si può arrivare a dire che secondo James il senso di autostima derivi dal rapporto tra successo e aspettative, infatti senza dubbio la maggior parte dei fattori che va a condizionare la creazione del personale livello di autostima discende dai risultati/esiti delle prove che siamo chiamati ad affrontare quotidianamente.”

Questo credo sia il motivo per cui non riusciamo a mettere i famosi paletti che delimitano la nostra sopravvivenza e lasciamo che un altro ci obblighi a fare cose che non vorremmo fare e che, a volte limitano anche la nostra libertà.
In pratica non sappiamo dire no agli orari prolungati all’eccesso, alle richieste di fare cose che poco hanno a che vedere con la professione della Manager Assistant, a compiti di basso profilo.
A questo punto mi pare evidente che il risultato che ne consegue è che la nostra autostima, dato che la creazione del personale livello di autostima discende dai risultati/esiti delle prove che siamo chiamati ad affrontare quotidianamente” sparisce completamente a fronte delle mansioni assegnate.
Credo che ognuna di noi dovrebbe volersi un po’ più di bene e cominciare a dire di no.